A mia nonna Tullia: la cui semplice esistenza è testimone dell’estinzione di un mondo. Sperando un giorno qualcuno possa farsi latore di antiche e misteriose tradizioni, raccogliendo e narrando la memoria delle rughe del nostro tempo.

Come la goccia che scava lentamente la roccia, così trascorrono i giorni e si avvicina sempre più la fine del secondo millennio. Nella grande metropoli corre la gente a capofitto ai propri affari; si scontrano i passanti lungo le vie asfaltate senza frenare la caotica marcia. Colossali i preparativi per la festa che si preannuncia la più grande e spettacolare di tutti i tempi.

Volano le idee, così come la fantasia, a mirabili progetti che trasformeranno l’Urbe agli occhi di quei frettolosi autoctoni troppo pigri per guardare sotto la gloriosa polvere dei secoli.

Agli opachi, affumicati e ormai stanchi monumenti qualcuno restituirà un po’ dell’antica lealtà, saggezza, forza e nuovamente si canteranno le gesta di quel fiero popolo che ci dona i natali. “Un popolo di Poeti di Artisti di Eroi di Santi di Pensatori di Scienziati di Navigatori di Trasmigratori”… ma che non ha mai sofferto la sete.

In ogni piazza una fontana, per ogni fontana una piazza! Giochi d’acqua che salutano il cielo, le strade e l’invidia dei turisti; antiche vasche di marmo nei vicoli rionali, lungo le vie e nei giardini pubblici fontanelle in ghisa. E proprio una di queste simpatiche costruzioni, Tullia, è la protagonista della nostra storia.

Mi ricordo che quando la portarono, Tullia era stipata insieme a decine di compagne e sorelle su di un rugginoso rimorchio trainato da un trattore. Alcuni operai dalle sgargianti tute arancioni la sollevarono dal rimorchio, tenendola sospesa sulle mani, come un’offerta ad una qualche divinità, prima di posarla e saldarla a terra.

I pochi palazzi del quartiere avevano riversato in strada la solita folla di curiosi che circondava quell’insolito ornamento. Prima di andarsene uno degli operai, sollevato un tombino, girò una manopola e dopo qualche istante il nasone ciondolante di Tullia iniziò a singhiozzare qualche spruzzo d’acqua, prima di traboccare un flusso pieno e scrosciante. Quelli più vicini fecero un balzo indietro per non bagnarsi i piedi con gli schizzi che l’improvviso gettito aveva alzato urtando sul marciapiede; il più tempestivo fu un bimbo biondo che corse a riempirsi prima le mani e poi la gola con quel refrigerante liquido.

Se prima di allora nessuno ne aveva mai sentito il bisogno, adesso che Tullia faceva parte del quartiere, non c’era passante che potesse resistere a quel soave invito ad una semplice rinfrescata o ad un’abbondante bevuta.

Era come se quel cavaliere dalla fosca ma lucida corazza avesse stregato tutto e tutti nelle vicinanze: persino cani e gatti randagi e gli uccelli del mattino si davano appuntamento e ristoro alle acque di Tullia. Quella chiara pozione era così buona, pulita, dissetante che si allungava volentieri la strada, pur di bagnarsi le labbra.

Al contrario di quanto aveva temuto, i giorni trascorrevano lieti e non si sentiva mai sola, felice anzi, di recare sollievo a tante persone e complice dei lazzi estivi dei bambini.

Venne infine l’inverno, ma Tullia non temeva più la solitudine: nonostante i visitatori giornalieri fossero notevolmente diminuiti, la sua casa era lì e aveva ancora tanti amici animali da accudire, che le dimostravano la loro gratitudine con acrobatici voli radenti il suolo o con calorose fusa.

Con il ciclico succedersi delle stagioni passavano celermente anche gli anni e Tullia conobbe nuovi visitatori. Erano degli strani amici dell’uomo, sostituivano carri e cavalli negli spostamenti del loro padrone e invece di nitrire facevano uno strano rumore, a volte più silenzioso e quasi armonico, altre assordante e fastidioso. Quando due esemplari di questa multiforme e variopinta specie si incontravano, si scambiavano acuti saluti e luminosi occhiolini. Comunque queste strane creature sembravano essere estremamente sensibili alla sporcizia tanto che Tullia aveva spesso offerto la propria acqua per la loro pulizia.

Ma ben presto l’esigente e viziata razza divenne un problema per la nostra povera amica in quanto oltre all’acqua, per essere lavata, pretendeva l’uso di strani liquidi colorati che creavano una gran quantità di schiuma che andava ad ostruire lo scarico di Tullia.

Così lavaggio dopo lavaggio, quell’oleosa, vischiosa e artificiale spuma provocò il riflusso delle acque e il successivo quanto inevitabile stagnarsi di queste. Da una prima pozza si giunse presto ad una piccola ignava palude, ove oltre le scorie dei prodotti chimici andavano a depositarsi, per poi marcirvi, foglie e polline. Le inospitali e maleodoranti acque si fecero cariche di germi e altri esserini nauseabondi che sguazzavano noncuranti sulla crosta melmosa del liquame.

Non fu difficile così, per le tubature di Tullia, prendere una decina di infezioni tropicali e contagiare il resto della fontanella. Di lì a poco il nasone della nostra amica cominciò a tirare su e l’acqua, salvo qualche gocciolone, non usciva più.

I primi ad abbandonare Tullia, furono gli stessi che le avevano causato il danno: gli uomini, che per le loro futili esigenze, trovarono ben presto un rimpiazzo; successivamente anche gli animali si allontanarono, ché le acque stagnanti erano imbevibili. La povera Tullia si ammalò quindi, anche di tristezza e ciò che la rendeva più infelice non era tanto la sua forzata inattività, quanto lo sconforto che leggeva negli occhi dei bambini, soffocati dall’arsura e costretti a placarla con brodaglie colorate, acquistate per due soldi agli angoli delle strade.

Incapace di rialzarsi, succube di un crudele destino, Tullia soffriva i giorni interminabili che volgevano alla sua completa decadenza finché, alle prime luci di un mattino di primavera, mentre sconsolata guardava l’immobile distesa di sporcizia gongolarsi sotto di lei, la fetida superficie di questa s’increspò improvvisamente.

Dal ramo di un albero, forse perché ancora troppo assonnato per spiccare il primo volo della giornata, o più semplicemente perché le sue esili zampette avevano inciampato in una foglia, un piccolo uccellino era precipitato in quella mota famelica che ingorda tentava di trascinarlo sul fondo. Il poverino pigolava stridulo, ma quando le onde cominciarono a coprirlo, il suo lamentarsi si trasformò in un incomprensibile gorgoglio.

Affranta, furibonda per la straziante tragedia che si consumava sotto il suo sensibile sguardo, Tullia provò ad allungare… ad andare… niente, era ancorata lì e quel corpicino pennuto quasi non si vedeva più. Sentì muoversi qualcosa, il nodo che le attanagliava il cuore si sciolse in un pianto dirompente che proruppe dal vecchio nasone. La pressione delle lacrime fu tale che una volta investita, la piccola palude sprofondò nelle viscere delle fognature.

L’uccellino ruzzolò all’indietro sul selciato, ripulito dalla fanghiglia e salvato da morte certa, si alzò sulle zampette, arruffando le piume bagnate e si avviò saltellando verso Tullia per abbracciarla con le sue umide alucce.

Insieme all’acqua fecero ritorno gli amici di prima, felici per la miracolosa guarigione della compagna di giochi, che beata godeva sorridente dell’affetto di tutti. Gli alberi sbocciavano in floreali fuochi pirotecnici, le rondini piroettavano in carole canore, cani e gatti si alternavano nel salto della cavallina e Tullia elargiva copiosamente quella magica mistura, fonte di vita, a chiunque ne richiedesse i salutari e benefici servigi.

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